VITO
SARDANO, ovvero il fascino della pittura reificata
C’è chi crede che col progredire
dell’era tecno-elettronica l’arte sia destinata a scomparire.
Io, consapevole che tali
previsioni sono state avanzate sin dalla scoperta del
dagherrotipo (1839) e ripetute ad ogni
scoperta della moderna tecnologia, non
sono tra questa schiera.
L’arte è una prerogativa
dell’uomo.
Pertanto, come il computer ed internet non prenderanno il posto dei libri, ma
li affiancheranno soltanto, altrettanto avverrà per i manufatti dell’arte, che continueranno
senza alcun dubbio ad essere affiancati dallaxerox arte, dalla computer art, dalla video arte e
da tutti gli altri prodotti più avanzate e sofisticate tecnologie, senza mai prenderne
definitivamente il posto.
Infatti sono persuaso che la
partita del futuro non si gioca sul tavolo dell’azzeramento dell’arte, bensì sul tavolo
dell’arricchimento dei suoi linguaggi e media espressivi. Inoltre parole
l’homo faber non sarà ucciso dall’homo
technologicus et electronicus.
Questa premessa mi è sembrata
necessaria per introdurre il discorso su Vito Sardano, provetto Artista, che ha saputo
coniugare alla perfezione la sua creatività con la manualità di
homo Faber. Ed è proprio da questo
fertile connubio che è nato il suo linguaggio
originalmente nuovo, che sa far vibrare le corde
della fantasia con esiti fascinosamente poetici, ottenuti con gli oggetti cherchés et
sélectionnés (più che trouvés) nell’ambito dell’universo del suo
lavoro di progettista industriale.
Si potrebbe parlare per le opere
d’assemblaggio di Sardano di poesia degli oggetti. Poesia che
sa esprimersi felicemente sia
nelle strofe delle composizioni su tavola che nei poemetti a tutto tondo con la medesima tenuta
inventiva e con lo stesso rigore costruttivo; poesia ipaginativa nel primo caso, poesia
tettonica, nel secondo, dove i “totem” oggettuali escogitati nella
sua officina mostrano che il
nostro artista pugliese a saputo mettere a frutto con inflessioni personalissime la lezione di
Boccioni, il quale sin dal 1912 nel Manifesto tecnico della scultura futurista aveva proclamato che
una scultura si può fare anche con venti materiali diversi dettato che ha costituito la
nascita della scultura contemporanea.
Ma, si badi, Sardano non è
affatto uno scultore neofuturista, così come non è, nonostante l’utilizzo degli ogetti, un
pittore neodadaista. La sua lingua utilizza, si, termini desunti
dal vocabolario futurista e dadaista, per non dire delle inflessioni informali, concretiste
e costruttiviste, ma la grammatica
su cui poggia è fuori di tali tendenze.
E lo è proprio in virtù di una
sintassi che di esse riassorbe le istanze di base trasfigurandole
secondo una particolarissima
sensibilità che per immaginazione e per orchestrazione le trascende nei risultati.
Certo, come ogni lingua anche
quella di Sardano ha avuto la sua evoluzione. Solo che in lui si è verificato un processo
inverso, rispetto a quello che ha generato il volgare dal latino.
Il suo “volgare” ha preceduto la
maturità della lingua d’oggi: ed esso va individuato nella sua rivisitazione futurista attuata
con gli olii degli anni Ottanta, quando ancora la concitazione,
ora dinamica ed ora sincopata,
delle composizioni (e scomposizioni) obbediva più alle pulsioni dell’emozione che non agli
equilibri dei pesi e contrappesi della ratio ideativa, aspetto quest’ultimo che s’è precisato con
l’avvento dell’oggetto sulla scena della pittura.
Credo che tale avvento abbia due
matrici. Un sempre crescente bisogno di fisicità, determinato dalle pratiche del suo lavoro
quotidiano e l’incoergibile necessità di sfuggire dal caos reificato.
Da artista artigiano egli s’è
inventato modi di lavoro in cui, per quanto attiene alle opere con oggetti, la pittura fa da
controcanto alla fisicità degli inserimenti di vari elementi
fisici, non senza aver rielaborato pratiche
del materismo dell’art autre, compreso il ricorso alla juta che sfrangia accuratamente come
centro tavola del suo desco pittorico e mescola alle materie cromatiche, ma per tutt’altri
esiti di quelli ottenuti nei Sacchi da Burri, né più né meno di quanto fa nei confronti delle
tavole imbandite con ogetti affastellati un campione del Noveau Réalisme come Spoerri.
E’ soprattutto per evitare il
pericolo del caotico affastellamento di elementi, aspetto a cui Sardano talvolta non è sfuggito
nei dipinti degli anni Ottanta, ma con meno danno (si sa, nella pittura la pletora degli elementi,
proprio per la bidimensionalità del quadro, è limitata alla sola visione, cosa che ne attutisce
l’esuberanza), che egli s’è rivolto ad un’impaginazione degli elementi di cercata geometria
oggettuale, dove un tondinato metallico funge da retta o da linea serpentina, un’asta da
parallelepipedo, un disco da cerchio e via rielaborando oggettualmente forme euclidee, in verità già
prefigurate nella pittura degli iniziali anni Novanta, talora con aggregazioni di pittorici simboli
esoterici che avrebbero fatto la gioia degli alchemisti e dei massoni (si vedano, al riguardo,
Vuoto d’animo del 1991 e Pentacolo del 1992).
Una volta entrato nell’era degli oggetti Sardano ha cominciato a declinare congiuntamente emozione e ragione, in altre
parole esuberanza espressiva ed ordine compositivo, svariando dai quadri con più dischi su cui
sono dipinti simboli, tanto da renderli sorta di medaglie che finiscono per “decorare” la superficie (Implacabile rotazione,1995), agli altarini triangolari in cui dischi-equilibristi sono
sospesi nello spazio ( Via libera “conquista intensa dello spazio n. 2”, 1997), oppure si
conficcano sull’azzurra superficie scandita da aste (Excursus, 1999), giù giù fino alle rade esibizioni
su fondi color sabbia delle più recenti composizioni (Itegrità sait, Cerchio incontrastato,
Fusione globale, 2000), che hanno il loro diapason nelle tre “siringhe” seminterrate nella
superfice ricoperta di truciolati di falegnameria del coevo sistema Elga. Sembrerebbe che negli ultimi
tempi Sardano abbia optato per rinunce radicali, che si sono ripercosse anche nell’ambito
della scultura, come sta ad attestare nelle Strutture per installazione del 1999, ciclo
propedeutico ai quadri del 2000 testé citati.
Nell’impianto assemblativo di
tale ciclo sono prevalse le ritmiche strutturali delle tavole spoglie di colore aggiunto, che in
considerazione del piacere sensuale per il colore, da sempre evidenziato dal nostro pugliese
nella sua produzione, suona come una pausa di riflessione, quasi ascetica. Del resto, in Sardano c’è sempre un cordone ombelicale che lega pittura e scultura. Anche per quando attiene
ai periodi pre e post l’era dell’irruzione dell’oggetto nel suo fare. Anzi non può sfuggire
che, se in realtà s’era già imposto nei dipinti dei primi anni del Novanta (Visione Moto a
tratti, 1992), addirittura con taluni preannunci dell’avvento
dell’oggetto ascrivibili al 1990,
come mi par di cogliere nel centrale piano aggettante del suggestivo Il teatro dei balocchi,
è nell’era degli oggetti che s’è accentuato il ritorno all’ordine compositivo, assumendo dalla metà
degli anni Novanta valore centrale nella produzione di Sardano, la quale pertanto
accentua le ritmiche astratte con dischi e altri elementi desunti dal lavoro extra-artistico in cui egli
s’è imposto.
E mentre talune ritmiche
compositive appalesano il fertile tirocinio dovuto al retroterra pittorico citato (si confrontino
le iterazioni diagonali di Moto a tratti del ’92 con quelle di Impossibile giuntura del ’94,
oppure gli incroci con tondo centrale di Vuoto d’animo del ‘91 con quelli di Rilevato traguardo
spazio tempo n. 2 del ’96, ma anche la composizione ad assi di Costruzione n. 2 del ’93
con quella lignea di Struttura per installazione n. 3 del 99), tuttavia è
con l’avvento
dell’era dell’oggetto che l’ordine compositivo s’è articolato su scansioni più sobrie, appunto
per evitare affastellamenti eccessivi.
Ma non per questo la vis
fantastica, che ha sempre sostenuto il fare di Sardano, è venuta meno. Ed infatti, ecco che atraverso tale vis l’artista, con Punto d’arrivo indefinito n. 18 nel ‘ 95 ha saputo costruire il sole
del suo regno simbolico, sole che al colmo della sua potenza irradiante a moltiplicato fino al
limite della proliferazione i propri raggi contrassegnati da altrettanti simboli (Confluire,
1995). E poi, una volta tramontato tale sole, nostro s’è messo a scrutare il firmamento del
suo universo pittorico, “fotografandone” le costellazioni e i pianeti di talune zone, come
accade in Sviluppo di un concetto del 1999.
Certo le ritmiche delle oggettuali
composizioni pittoriche hanno subìto una riduzione degli Elementi, ma l’hanno prontamente
risarcita con l’astanza fisica dei “bassorilievi”, istanza che nell’impatto visivo coinvolge
la dimensione tattile.
Questa dimensione, essendo più
idonea alla plastica, ha determinato il conseguente approdo alla scultura, in cui
l’assemblaggio degli oggetti ha potuto prendere il largo nello spazio,
in una sorta di navigazione ideativa
ed esecutiva che sulla scia dell’opzione euclidea della pittura reificata a permesso a Sardano di costruire i suoi totem (Percorribile evoluzione, 1998; Divulgare,1999), i suoi
monumenti (Propagare, Iperspazio concettuale, 1998; Episodi Ricorrenti, 1999), persino
cosmicamente ricetrasmittenti (Trasmettere, 1999), e le sue piramidi (Profondo concentrarsi
del pensiero, 1998; Diffusione “Vota arte”, 1999), tutti straordinari assemblages
multimediali, su cui svetta Liberata energia vitale, totem del 1998 culminante in quel guanto con le
dite aperte sul cielo.
Il guanto è ancora un elemento
preso di peso dal mondo del lavoro praticato da Sardano.
Ma per l’uso che egli ne ha fatto
in questo giocoso totem verde esso funziona da momento vitalizzante che anima tutta
l’opera, contraddicendo il sottile richiamo metafisico di taluni lavori dell’anno precedente, quali
Continenza ira violenza sdegno desiderio sogni "realtà” ed i l trittico Planisferio
dell’arte concettuale n. 1, dove i guanti erano sistemati nella medesima posizione d i quella
di caucciò dipinto 1914 da Giogio de Chirico in canto d’amore, olio che fece scoppiare a
piangere Magritte, quando ne vide la riproduzione sulla rivista di Mario Broglio “Valori
Plastici”.
E non sembri peregrino il richiamo
a de Chirico. Infatti il discorso artistico di Sardano è, nonostante tutto, permeato di mediterraneità, come i suoi abbandoni cromatici mi sembra confermino abbondantemente. Una mediterraneità che affonda le radici nella cultura del meridione d’italia, dove non
sono infrequenti i discorsi di di forte sensibilità materica e fisica, di cui un protagonista
negli anni a cavallo tra il Cinquanta e il Sessanta fu Lucio del Pezzo, artista non a caso passato
dagli oggetti affogati nel magma materico a tavole di una geometria ricca di spessori
esoterici ed addirittura alchemici.
L’immaginario di Sardano
appare tutto proteso ad un ricongiungimento con la realtà. Di qui deriva la necesità fisica e
tattile della sua manipolazione di ogetti anche nello spazio della pittura, spazio che governa
con un ordine derivante della ratio geometrica.
Ed è da qui che zampillano la
sua tecnica ed il suo estro d’artista, perché infatti, come insegnano le etimologie, ars, che
in latino significa “abilità, eccellenza in qualche attività”, deriva dall’accadico harasu
(compongo, metto insieme), termine imparentato con artigiano, come ci rivela l’ebraico haras (=
artigiano), e radicato nella magia, come rivela l’aramaico haras (=artigiano), e radicato
nella magia, come rivela l’aramaico hars (= abilità magica).
Se poi si fa mente locale sul
fatto che in greco il termine per arte era techné, derivato dal verbo accadico taqanu (disporre in
ordine) e dal conseguente sostantivo teqnu (il disporre ordinatamente, abbellimento), si comprenderà su quali sostrati ancestrali si fonda il discorso di Sardano, che è
arte, in quanto è frutto di un modo di comporre, mettendo assieme diversi elementi con
un’abilità magica che ricava il suo fascino appunto dal disporli in ordine, non preordinatamente, com’è nelle macchine: per esempio, nel computer, che non a caso i
francesi chiamano ordinateur.
E valga questo confronto a
ribadire quanto asserito all’inizio di questo testo sull’arte di Sardano, che non rinnega
le sue origine artigiane, anzi le esalta, rinverdendo modernamente l’antico connubio di
arte ed artigianato.
Giorgio Di Genova Roma, Maggio
2000
Via internet tutte le strade portano a
Monopoli
Per le composizioni multimediali di Vito
Sardano si può parlare, a buon diritto, di poesia dell’oggetto. Ho
vissuto in prima persona, con il Nouveau Réalisme, il fenomeno
capitale del ventesimo secolo, l’affermazione della valenza auto
espressiva dell’oggetto industriale e della sua virtù concettuale
globalizzante, dai ready-mades di Marcel Duchamp fino agli oggetti
impregnati di blu IKB di Yves Klein, passando dalle combine-paintings
di Rauschenberg. Non posso quindi essere particolarmente sensibile
all’attuale percorso creativo di Vito Sardano, poiché esso
s’inserisce nel cuore della più attuale e scottante
problematica della nostra cultura in totale
mutazione: attraverso il trattamento dell’oggetto, è del destino
dell’immagine e del ruolo dell’arte nella nuova civiltà emergente che si
tratta. Dal punto di vista formale, in primo
luogo.
La formazione di Sardano
si traduce in estrema meticolosità nella composizione, in
rigore strutturale nella centralità dell’immagine globale, in esuberanza
nella proliferazione della simbologia, in grandissima raffinatezza
nell’uso del colore. A prima vista, questa sovrabbondanza espressiva
rischia di apparire come il marchio di una visione post-futurista che
tende al surrealismo. Ma il feticismo decorativo del dettaglio è ben
presto trasceso dalla potenza dell’ordinamento e dalla portata
concettuale dell’immagine globale. In Sardano il passaggio alla
creazione artistica si è unito ad un’intensa riflessione sulla
concettualizzazione semantica della composizione oggettiva.
Questa stretta relazione fra manuale e
mentale gli ha consentito, attraverso la sua naturale esuberanza
mediterranea e meridionale, di affrontare l’implacabile logica della
nostra cultura globale, basata sull’imperativo della comunicazione. Con
grande naturalezza Sardano, nel corso quotidiano del suo lavoro, ha
saputo far sua la lezione dell’arte concettuale: l’ogetto, generato nel
mondo reale, diviene vettore dell’idea. La presenza dei guanti da lavoro
in Planisfero dell’arte concettuale (1997) ben simboleggia la presa di
coscienza del cambiamento radicale del ruolo dell’arte. Quella del
giorno d’oggi non aspira più a rappresentare ma a comunicare. E i lavori
di Sardano, infatti, fanno altrettanto. I titoli sono evidenti, da
Propagare (1998) a Trasmettere (1999) o a Divulgare (1999) le sculture
multimediali sono dei dispositivi di comunicazione elettronica via etere
poeticamente travestiti, delle antenne paraboliche che vestono il traje
de luz, il vestito di luce dei toreri spagnoli. Queste macchine
umanizzate, saturate di contrassegni sensibili, non sono elementi
folcloristici. Impongono rispetto poiché segnalano, attraverso i loro
quadranti, i loro dischi, le loro rose dei venti, la presenza della
sostanza-chiave della comunicazione, l’energia cosmica, quell’energia
vitale di cui esse sono gli attrattori. Davanti a Liberata energia
vitale (1999), Profondo concentrarsi del pensiero (1998) o Fusione
globale (2000) non posso impedirmi di pensare ad Yves Klein ed al suo
supremo concetto di energia cosmica: quell’energia immateriale che,
circolando liberamente nello spazio, giunge ad animare la nostra
sensibilità ed è il fondamento di tutti i linguaggi creativi. Senza di
essa tutti i più bei sogni utopici di Yves Klein, a cominciare dalla
“conquista intensa dello spazio”, sarebbero stati vani. E’ su questa
energia immateriale che si fondano il potere dei media e la loro
estensione planetaria. E’ lei che oggi assegna all’arte il suo ruolo di
vettore umanistico della comunicazione globale. E’ lei che condiziona il
nuovo destino dell’immagine. Questa ha abbandonato gli statici supporti
tradizionali per raggiungere il flusso globale dell’informazione
attraverso la fluidità, l’evanescenza e il movimento dello spazio
televisivo.
Fluidità e movimento, sono i due elementi
che mancano alle composizioni e alle sculture di Sardano. L’immagine
statica ed oggettiva che l’artista ci presenta attraverso il suo lavoro
corrisponde, nella sua profonda finalità concettuale, ai più attuali
criteri di diffusione della cultura globale ed agli imperativi
spirituali dei protagonisti dell’avventura dell’oggetto che ne sono
stati i precursori. Ogni struttura multimediale che l’artista Vito
costruisce, con il fervore perfezionista di un lavoro ben fatto, diviene
di per sé un assemblaggio che s’inscrive nella grande linea storica
dell’avventura espressiva dell’oggetto, come hanno fatto i collage
cubisti, futuristi o dada, i ready-mades di Duchamp o le appropriazioni
dei Nouveaux Réalistes.
Ma questi assemblaggi multimediali sono
portatori di un’immagine globale di fronte alla quale l’artista Sardano
assume contemporaneamente un diritto e un dovere: il diritto della
concettualizzazione ed il dovere della comunicazione. Queste immagini
trovano spontaneamente lo spazio per inserirsi nel flusso generale
dell’informazione planetaria. Lo spazio di diffusione dell’immagine
sardaniana è quello elettronico della televisione e del sito internet:
lo spazio della comunicazione globale, della propagazione, della
trasmissione, della divulgazione; quello della “via libera alla
conquista dello spazio”, quello della liberazione dell’energia vitale.
L’artista ha così creato in Vito Sardano
un meraviglioso paradosso fra il costruttore di oggetti d’arte, la cui
destinazione e la galleria o il museo, e l’emittente di immagini
concettuali, destinate ad inserirsi nel flusso elettronico della
comunicazione. Una soluzione a questa dicotomia: poiché il lavoro
manuale è parte integrante dell’insieme del suo dispositivo creativo,
Vito Sardano dovrebbe riprendere in video l’intera storia della
realizzazione di ogni opera, a partire dall’iniziale ricerca dei
materiali di base e la loro progressiva elaborazione, fino all’emergere
dell’immagine globale.
Nelle loro performance, che io chiamavo
“azioni-spettacolo” i Nouveaux Réalistes non hanno mai separato le
modalità dell’azione performante dal suo risultato finale.
Penso ai pennelli viventi di Yves Klein
nelle sue Antropometrie, ai Colères di Arman, alle compressioni di
automobili di Cesar, di cui la Suite milanaise del 1999 costituisce
l’estremo culmine, alle macchine auto distruttrici di Tinguely, il cui
capolavoro rimane La Vittoria del 1970 sul sagrato del duomo di Milano.
Penso anche ai “tiri” di Niki de Saint-Phalle, ai “pacchi” di Christo,
ai Tableaux-piége di Spoerri, ai Décollages degli affichisti e
soprattutto di Mimmo Rotella.
Oggi lo spazio naturale dell’informazione
performante è lo schermo del computer: ogni oggetto multimediale di Vito
Sardano dovrebbe essere accompagnato dal suo ritratto video,
l’inseparabile documento che rintraccia la storia dell’immagine globale
di cui esso è portatore e garantisce la sua autenticità come oggetto
d’arte, cioè come oggetto di comunicazione.
Questa “prova del fuoco” televisivo
s’inscrive nell’inesorabile senso della storia. Con i suoi reay-mades
Duchamp aveva perentoriamente affermato che <sono gli spettatori che
fanno l’arte>, evidenziando così il peso capitale dell’adesione del
pubblico sul piatto della bilancia estetica. La democratizzazione del
gusto da lui instaurata arriva oggi, nel nostro periodo di
globalizzazione culturale, alla sua fase culminante: il trasferimento
della gestione di questa suprema prerogativa della coscienza collettiva
ai media, detentori dell’informazione e della memoria planetarie. E’
proprio attraverso lo schermo elettronico del video che si può percepire
la portata globalizzante dell’immagine concettuale sardaniana. Dando
prova di un notevole “tempismo”, Vito Sardano poeta ispirato
dell’oggetto, si trova ormai all’incrocio delle strade o piuttosto al
crocevia delle autostrade della comunicazione. Cioè in un contesto
ambiguo di centralità incontrastata e quasi impenetrabile, indefinito
punto d’arrivo nel quale egli si sente bene. Sceglierà fra la staticità
della struttura significante e la diffusione dell’immagine concettuale
sullo schermo fluido? O seguirà il mio suggerimento di far coesistere le
due cose senza tuttavia sottrarsi alla prova del fuoco telematico? Solo
il tempo ci darà una risposta. Sono curioso ed impaziente di conoscerla.
Bravo Vito ed “ad maiora”, sarei tentato
di dire riprendendo io le parole di Walter Laganà, sindaco di Monopoli,
nell’introduzione al bel catalogo della mostra dell’artista, tenutasi,
nel luglio 2000, al Castello di Carlo V della città pugliese, la sua
città natale. Monopoli, la città dove oggi Vito Sardano vive e lavora:
via internet tutte le strade portano a Monopoli!
Pierre Restany
Milano, Marzo 2002
Traduzione: Nidia Morra |